#LOTTA CONTADINA
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pier-carlo-universe · 1 month ago
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Presentazione del romanzo Ci piaceva ballare nonostante la guerra di Franca Garesio Pelissero. Alla Biblioteca Civica “F. Calvo”. Alessandria
Un viaggio tra ricordi, resistenza e misteri in un'Italia segnata dalla guerra.
Un viaggio tra ricordi, resistenza e misteri in un’Italia segnata dalla guerra. Il prossimo giovedì 10 ottobre 2024, alle ore 18:00, presso la Biblioteca Civica “F. Calvo” di Alessandria, avrà luogo la presentazione del romanzo Ci piaceva ballare nonostante la guerra, scritto da Franca Garesio Pelissero e recentemente ripubblicato dalle Edizioni dell’Orso. L’evento, che fa parte di un’iniziativa…
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diceriadelluntore · 6 months ago
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Addii
Due personalità completamente diverse, ma che mi hanno cresciuto:
Giovanna Marini, morta a 87 anni, che per quasi tutta la vita ha tramandato la musica popolare, quella contadina o quella di guerra o di lotta. Il suo lavoro, unico e irripetibile, continuerà nella scuola da lei fondata a Testaccio.
Steve Albini è morto molto più giovane, a 61 anni, dopo aver rivoluzionato la produzione musicale degli anni '80 e '90. Figlio di genitori di origine torinese, fu prima chitarrista e poi produttore geniale: tra i lavori da lui curati, Nirvana – In Utero, Pixies – Surfer Rosa, P J Harvey – Rid of Me, il primo album degli Slit e le produzioni per piccoli grandiosi gruppi italiani come gli Zu e gli Uzeda.
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coccaonthinks · 4 months ago
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C’è qualcosa che tutti possiamo fare un po' di più: è guardare, guardare con più attenzione il mondo intorno a noi. Guardare non è tanto un modo di informarsi, ma l’unico varco per arrivare a un possibile stupore, pu�� essere un paesaggio lontano, può essere vicinissimo a casa nostra. Guardare è un modo per dire alle cose e agli animali di non andarsene, di rimanere ancora con noi. Guardare una lampadina, un imbuto, un albero, un cane, guardare e sentire un momento di vicinanza, mettere in crisi per qualche secondo la solitudine in cui siamo caduti.
In me la ricerca di quello che chiamo Sacro minore è andata crescendo man mano che aumentava l’invadenza della vita digitale. Si può stare in Rete anche molto tempo, ma non bisogna accodarsi all’esodo verso l’irrealtà, bisogna rimanere fedeli al reale, è l’unico bene, è il bene comune, il bene più comune di tutti e non dobbiamo perderlo.
Questo guardare di cui parlo non è un partito, non è un’ideologia, non è andare a rintanarsi in un rifugio, come se altrove fosse tutto deserto e miseria spirituale. Direi che è semplicemente il coltivare una saltuaria abitudine percettiva. Io non so fare di più. Dopo questi brevi slanci verso l’esterno la mia vita rifluisce verso l’interno, si riduce alla continua manutenzione dell’inquietudine. E qui mi pare che si incroci con quella di tanti in questo tempo di vite spaiate, lontane da ogni fuoco collettivo. Ecco il bivio: da una parte l’attenzione al mondo che ci circonda, dall’altra la deriva opinionistica in cui tutti cinguettano su tutto in una babele di parole che girano a vuoto.
La poesia è come un vigile che sta davanti a questo bivio e indirizza chi la legge verso l’attitudine percettiva piuttosto che verso le astrazioni dell’opinionismo. La poesia è la scienza del dettaglio, è il sogno tagliato dalla ragione o la ragione tagliata dal sogno, comunque non è mai nel dominio di una sola logica, è sempre intreccio, sconfinamento, purissima impurezza.
Io credo di essermi educato allo sguardo proprio grazie alla poesia, al suo rendere l’anima più agile, capace di oscillare dall’infimo all’immenso, dal dentro al fuori. E sull’attenzione al mondo esterno posso citare i miei due grandi maestri, Peter Handke e Gianni Celati. Il primo conosciuto e frequentato nei suoi libri, l’altro frequentato anche di persona. Celati mi ha insegnato le meraviglie dei luoghi ordinari, delle giornate qualsiasi. In fondo il mio lavoro di paesologo ha una sola regola che si può riassumere con questo mio aforisma: “Io guardo ogni cosa come se fosse bella e se non lo è vuol dire che devo guardare meglio.” All’inizio la mia attenzione ai luoghi marginali era più in chiave politica, ero infiammato dalle disattenzioni della politica. Il margine era indagato come luogo dell’abbandono, ero protesto a cogliere il passaggio dalla miseria contadina alla desolazione della modernità incivile. Sono rimasto a indagare il margine, ma con uno sguardo diverso, direi più ricco. Non ho abbandonato la lotta contro lo spopolamento delle aree interne, ci ho aggiunto l’attenzione al sacro che ancora resiste in quelle aree, come se Dio amasse i luoghi dove non c’è partita Iva. Da qui è arrivato un libro come Sacro minore o un film come Nuovo cinema paralitico, realizzato con Davide Ferrario. Guardare il mondo quasi come un’attività nostalgica, considerando che stiamo tutti diventando senza mondo, considerando che non bisogna dare per scontata l’esistenza del mondo, come se la fuga nel digitale potesse trafugarlo e lasciarci come ombre vaganti in una terra di nessuno. Una volta si indagava il mistero della vita dopo la morte, adesso è da indagare il mistero della morte che dilaga dentro la vita, dilaga quanto più la morte viene rimossa, occultata dal fervore masochistico del consumare e produrre. Ecco che dal guardare, dalla semplice postura contemplativa, la questione diventa più complessa, diventa politica: non è in gioco solo il nostro modo di abitare la giornata, ma il modo in cui l’umanità abita il pianeta. Si tratta di prendere atto che il modello imperante produce solitudine e depressione negli individui, produce ingiustizie sociali e danni enormi al pianeta. Qualcuno ha detto che la bellezza salverà il mondo. Forse ora si potrebbe dire che il mondo lo salveranno i percettivi. FRANCO ARMINIO
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carmenvicinanza · 29 days ago
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Maria Spiridonova
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Maria Spiridonova, rivoluzionaria russa dalla volontà inossidabile, ha trascorso la maggior parte della sua vita in esilio e in carcere, sia sotto il regime zarista che sotto quello sovietico.
Assieme ad Aleksandra Kollontaj, è stata l’unica donna a svolgere un ruolo davvero di primo piano durante la rivoluzione.
Nata a Tambov il 16 ottobre 1884, in una famiglia nobile di provincia che le aveva permesso di istruirsi, era anche a studiare odontoiatria a Mosca prima che la morte del padre e la tubercolosi che l’aveva afflitta, la costrinsero a tornare a casa e cercarsi un impiego.
Si era avvicinata al Partito Social Rivoluzionario sin da giovanissima e aveva preso parte alle giornate social rivoluzionarie del 1905 che l’hanno vista andare in prigione per la prima di tante volte.
La repressione di quei moti fu brutale e compagni di lotta furono spietatamente massacrati dai cosacchi.
Aderì, per questo, all’ala combattente del PSR per eliminare uno dei responsabili della sicurezza che aveva represso nel sangue gli scioperi agrari. Dopo averlo seguito per lungo tempo, travestita da studentessa, gli aveva sparato cinque colpi di pistola che lo avevano ammazzato.
Arrestata, subì torture e sevizie da parte delle forze dell’ordine senza mai rivelare i nomi dei suoi complici. Venne condannata a morte con sentenza poi commutata nei lavori forzati a vita in Siberia.
La sua lettera, pubblicata sul giornale liberale di San Pietroburgo Rus’, in cui raccontava dell’orribile trattamento ricevuto, scosse l’opinione pubblica progressista che la trasformò in un’icona del movimento rivoluzionario.
Un vero e proprio culto si diffuse per la Russia, i contadini di Tambov offrivano preghiere per la sua salute, il suo ritratto si trovava nelle case accanto alle icone sacre e intere folle si radunavano per vederla passare durante i trasferimenti in treno da un carcere all’altro. Addirittura a Londra, venne raccolto un cospicuo fondo destinato a finanziare la sua possibile fuga dalla prigione.
Dopo dieci anni di detenzione, insieme ad altre cinque rivoluzionarie, il cui gruppo è passato alla storia come šestërka (il sestetto), venne liberata nel 1917, in seguito all’amnistia decretata dopo la rivoluzione di febbraio.
Diventata delegata al Terzo Congresso Nazionale del partito, si era schierata con l’ala sinistra estrema che si alleò brevemente con i bolscevichi dopo la rivoluzione d’ottobre.
Figura di primo piano in politica, grazie al suo carisma, alla sua fama e alle sue abilità oratorie, venne eletta nel Soviet locale e nel Comitato Esecutivo dei soviet contadini.
In rottura col PSR di cui criticava la presenza nel governo borghese provvisorio, aveva fondato il Partito Social Rivoluzionario di Sinistra (PLSR) che rimase nel II Congresso dei Soviet.
Gli argomenti che portava avanti erano: fine della guerra, terra ai contadini, abolizione della pena di morte e potere ai Soviet, e le propagandava con efficacia nei periodici sui quali scriveva come Terra e libertà, La bandiera del lavoro e Il nostro cammino.
Nel novembre del 1917 venne eletta Presidente del Congresso dei Deputati dei Contadini, determinando l’ingresso del soviet contadino nel Comitato Esecutivo Centrale Panrusso saldamente in mano ai bolscevichi. Il fatto che Lenin avesse riconosciuto che il Decreto sulla terra del 26 ottobre 1917, fosse un progetto fortemente voluto dai socialisti rivoluzionari di sinistra fu sufficiente per convincerla a trovare un accordo di governo con i bolscevichi.
Era stata la candidata della sinistra alla presidenza dell’Assemblea costituente, insediatasi il 5 gennaio 1918, ma venne sconfitta dal centrista Cernov.
Era stata alla guida della Sezione contadina per poi far parte del Comitato Rivoluzionario di Difesa di Pietrogrado.
La rottura definitiva con Lenin avvenne in seguito alle requisizioni forzate di derrate alimentari nelle campagne, autorizzate dal governo, compiute tra abusi e violenze sui contadini.
L’opposizione divenne crescente e il 6 luglio 1918 due militanti socialrivoluzionari uccisero l’ambasciatore tedesco Mirbach-Harff. Lei si assunse subito la responsabilità politica dell’atto e il 7 luglio il PLSR tentò una insurrezione contro i bolscevichi, arrivando ad arrestare per poche ore il capo della Ceka.
A capo della rivolta, si presentò al teatro Bolshoj, dove si stava svolgendo il Congresso dei Soviet, per pronunciare un discorso di attacco al regime bolscevico in difesa della creatività rivoluzionaria delle masse. Lenin la fece nuovamente arrestare.
Condannata a un anno di carcere e amnistiata poco dopo, aveva continuato la sua attività politica, cercando di riunire il partito. Accusava i bolscevichi di aver delegittimato i soviet imbrigliandone la libertà e di aver tradito gli ideali di emancipazione della Rivoluzione d’Ottobre.
Nel febbraio 1919 fu nuovamente arrestata, dichiarata inferma di mente e rinchiusa in una caserma-ospedale del Cremlino da dove di lì a poco fuggì, iniziando una fase di clandestinità spacciandosi per una contadina.
Il 6 ottobre 1920 la Ceka la arrestò nuovamente, scovandola in un appartamento malata di tifo. Venne sottoposta, per volere di Trockij ad un regime carcerario piuttosto duro, per poi essere trasferita in un istituto psichiatrico, venendo liberata l’anno successivo e affidata alla custodia dei vertici dell’ex PLSR fedeli alla linea bolscevica, purché non si occupasse più di attività politica.
Nel 1923, probabilmente per un tentativo di fuga all’estero, venne nuovamente arrestata e mandata in esilio alle periferie dell’Unione Sovietica, a Samarcanda e poi a Tashkent.
Non svolse più attività politica ma creò una rete di contatti per aiutare gli ex compagni esiliati a vivere dignitosamente.
In questo periodo sposò Andreij Majarov, ex dirigente social rivoluzionario anche lui al confino.
Con l’inasprirsi delle purghe staliniane, venne esiliata a Ufa, in Bashkiria, dove lavorava nella banca agricola locale e organizzava un piccolo collettivo casalingo con il consenso del ministero dell’interno.
Nel 1937, con le nuove purghe venne nuovamente arrestata e fu portata a Mosca nella prigione di Oriol per scontarvi 25 anni di carcere, dopo un processo sommario con l’accusa di cospirazione, attività controrivoluzionarie e sovversive per costruire una Repubblica Social Rivoluzionaria in Bashkiria.
L’11 settembre 1941, Stalin la fece fucilare insieme ad altri 150 prigionieri politici e seppellire in una fossa comune.
Ultimo oltraggio per lei che, fino all’ultimo, si era sempre dichiarata contraria alla pena capitale.
È stata una donna pronta a tutto per difendere i suoi ideali.
Ha passato più di trent’anni, dei cinquantasei vissuti, in carcere o in esilio. Sempre di salute cagionevole, non si è risparmiata nel suo attivismo.
Ha guidato le folle con i suoi discorsi e i suoi scritti. È stata osannata come una martire. È stata accusata di essere pazza e, infine, ammazzata.
Soltanto nel 1992 sono cadute tutte le accuse nei suoi confronti ed è stata completamente riabilitata.
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afnews7 · 5 months ago
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Michelina, la contadina italiana ribelle
Le afNews del giorno prima da FB: Su Casemate – “Nelle mani di Michelina, una contadina italiana ribelle, la foto è diventata un’arma. Anche nelle mani dei suoi carnefici… Cristiano Crescenzi e Cédric Mayen raccontano una lotta ignorata (interviste su Casemate n°180, in vendita in edicola).” …
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intimo-inchiostro · 4 years ago
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17 APRILE: GIORNATA MONDIALE DELLA LOTTA CONTADINA
17 APRILE: GIORNATA MONDIALE DELLA LOTTA CONTADINA
Salve a tutti, miei cari lettori. L’argomento di oggi, come quasi tutti gli altri scritti fin’ora, è della massima importanza. Oggi 17 aprile, tutto il mondo si unisce compatto, per sostenere la lotta contadina. Questa ricorrenza non ha origine da congressi mondiali, o organizzazioni. Nasce in seguito ad un tragico evento, avvenuto in Brasile il 17 aprile del 1996. In questo giorno, ben…
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italreport · 7 years ago
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Acate: Castello dei Principi di Biscari- martedì 17 aprile celebrazione della “Giornata Mondiale della Lotta Contadina”. Comunicato dell’amministrazione comunale.
Redazione Due, Acate (Rg), 16 aprile 2018.- Importante appuntamento martedì 17 aprile alle ore 18,30 presso il Castello dei Principi di Biscari ad Acate. L’antico maniero, infatti, è stato scelto dalla Confederazione Italiana Liberi Agricoltori e dalla Confederazione Altragricoltura, quale sede di un interessantissima Assemblea di proposta e organizzazione verso la Costituente dell’Alleanza per la…
Acate: Castello dei Principi di Biscari- martedì 17 aprile celebrazione della “Giornata Mondiale della Lotta Contadina”. Comunicato dell’amministrazione comunale. was originally published on ITALREPORT
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mtonino · 2 years ago
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17° Festa del cinema di Roma
4 giornata
Bassifondi di Trash Secco non c'è pietismo o moralismo ma tanta umanità nel ritratto di senzatetto che vivono nei bassifondi della capitale.
Foudre di Carmen Jacquier (in foto con Lilith Grasmung) l'energia vitale di una diciassettenne, la sua repressione della comunità contadina di inizio Novecento in un film che lascia un senso di incompiutezza. Sospeso
Houria di Mounia Meddour i sogni ripetutamente spezzati non impediscono a Houria e alle donne algerine di continuare a lottare per superare i limiti imposti. Emozionante
La Tour di Gillaume Nicloux la lotta spietata per sopravvivere al Nulla che inghiotte ogni cosa. L'Uomo non ne uscirà migliore. Detto così pare un buon film. Non lo è.
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schizografia · 3 years ago
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Per raccontare una storia, il pittore non dispone che di un istante: quello che sta per immobilizzare sulla tela. Quest’istante, deve dunque sceglierlo bene, assicurandogli in anticipo la massima efficacia di senso e di piacere: necessariamente totale, quest’istante sarà artificiale (irreale: quest’arte non è realista), sarà un geroglifico in cui si lèggeranno con un solo sguardo (in un colpo solo, se passiamo al teatro, al cinema) il presente, il passato e l’avvenire, cioè il senso storico del gesto rappresentato. Quest’istante cruciale, totalmente concreto e totalmente astratto, è ciò che Lessing chiamerà (in Laocoonte) l’istante pregnante. Il teatro di Brecht, il cinema di Ejzenstein sono delle successioni di istanti pregnanti: quando Madre Coraggio strappa il foglio che le tende il sergente reclutatore e in questo breve attimo di diffidenza lascia scappare suo figlio, rende palese nello stesso tempo il suo passato di commerciante e l’avvenire che l’attende: tutti i suoi figli morti per effetto del suo accecamento mercantile. Quando (nella Linea generale) la contadina lascia che venga strappata la sua sottana, perché la stoffa serva a riparare il trattore, questo gesto è gravido di un’intera storia: la pregnanza riunisce la conquista passata (il trattore aspramente conquistato all’incuria burocratica), la lotta presente e l’efficacia della solidarietà. L’istante pregnante è la presenza di tutte le assenze (ricordi, lezioni, promesse), al ritmo delle quali la Storia diventa intellegibile e al tempo stesso desiderabile.
Roland Barthes, Diderot, Brecht, Ejzenstein
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gregor-samsung · 3 years ago
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“ [I]l profilo nazionale dello stragismo jugoslavo della primavera 1945 nella Venezia Giulia appare decisamente asimmetrico: vale a dire, i morti sono quasi tutti italiani. Non c’è da stupirsi. Quella che spinge la sua onda fino alle rive dell’Isonzo è una rivoluzione nello stesso tempo nazionale e sociale e nella regione il potere da abbattere è tutto e solo italiano. Ci sono anche vittime che italiane non sono, perché la vera discriminante è l’accettazione o meno del potere nuovo, quello creato dal movimento di liberazione a guida comunista: di conseguenza, in Istria vengono colpiti elementi croati ostili alla lotta partigiana e nel Goriziano sacerdoti e laici sospetti di simpatie per i domobranci [corpo di volontari sloveni collaborazionisti degli occupanti nazisti]. Si tratta però di fenomeni tutto sommato marginali, perché la maggior parte della popolazione slovena e croata, anche a prescindere dalle simpatie per il comunismo, nel movimento di liberazione vede il protagonista del riscatto nazionale e quindi non lo ostacola, anzi, lo sostiene anche come interprete di una cruenta volontà di resa dei conti. La forma assunta da tale ostilità diffusa non è però quella del pogrom o della rivolta contadina, come nel settembre istriano dal 1943, quanto piuttosto quella dell’ampia collaborazione con l’Ozna [polizia politica comunista jugoslava] nell’individuazione dei bersagli da colpire; più tardi, per decenni, si trasformerà nella diffusa omertà su luoghi e circostanze delle stragi, anche quando a parlare non si rischierà più altro se non la riprovazione sociale. Tutta diversa è la situazione degli italiani: si identificano storicamente con il potere e, politicamente, per i quadri del Mpl [Movimento popolare di liberazione] non è agevole distinguerli dai fascisti: un po’ perché fa comodo; un po’ per l’impegno che nei decenni precedenti il regime di Mussolini ha sciaguratamente profuso nel saldare i due concetti, Italia e fascismo; ed un po’ anche perché, alle orecchie slovene e croate, sembrano dire in fondo tutti le stesse cose: e cioè, che la Venezia Giulia deve rimanere in Italia e che gli italiani devono continuare a comandare. Nell’ottica dunque delle nuove autorità, sia che si guardi al passato – il fascismo – o al presente – la diffidenza generale verso i poteri popolari, con l’unica eccezione della classe operaia – ovvero ancora al futuro – la permanenza, data per scontata, dell’Italia nel mondo capitalista – ce n’è d’avanzo perché il gruppo nazionale italiano venga guardato con pregiudiziale sospetto. Qui la “pulizia” dev’essere quindi larga e, semmai, sovrabbondante, perché è meglio non correre inutili rischi. Ma allora, è vero quel che spesso si dice e si legge e cioè che, a parte le responsabilità personali conclamate, obiettivo della repressione sono stati “gli italiani soltanto in quanto italiani”? Come abbiamo visto esser usuale quando si ragiona di storia di frontiera, la risposta non è lineare. La formula infatti è vera e falsa nello stesso tempo. È certamente falsa se il termine “italiano” viene utilizzato nel suo significato etnico, perché una prospettiva del genere è manifestamente estranea alle linee-guida della repressione, che dicono esattamente il contrario; è invece vera se “italiano” viene inteso come una categoria politica, cioè come espressione della volontà di appartenenza allo Stato italiano a prescindere dall’origine etnica di chi la esprime, perché – questa sì – viene considerata colpa grave, reato che può di per sé condurre alla morte. Non possiamo però nemmeno scordare che sul campo, al di là degli ordini e nel tumulto delle passioni e dei rancori, i piani si possono confondere e le percezioni delle vittime, che poco sanno delle strategie concepite a tavolino, possono talvolta ben corrispondere alle intenzioni di alcuni dei loro persecutori, che quelle strategie interpretano a proprio modo. “
Raoul Pupo, Adriatico amarissimo: una lunga storia di violenza, Laterza (Collana Cultura storica), settembre 2021. [Libro elettronico]
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iltrombadore · 3 years ago
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“Microcosmo Sicilia”: l’isola dei contrasti irrisolti con cui bisogna imparare a convivere
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Primo, non dimenticare la “Sicilia come metafora”, immagine coniata da Leonardo Sciascia per l’ isola tanto amata e però messa lucidamente a nudo nelle sue miserie e ambiguità, gli inganni ed autoinganni che ne tracciano la storia. Di questa lezione fa tesoro a modo suo Salvo Guglielmino che nel recente “Microcosmo Sicilia”  (Rubbettino editore, 2021) fonde in un amalgama originale memorie personali e familiari, cose viste ed esperienze vissute, episodi e personaggi salienti: ne emerge un persuasivo profilo del mondo siciliano fatto di accesi ed irrisolti contrasti, in bilico tra modernità e tradizione, impegno per il progresso ed attrazione fatale per il  gattopardesco abbandono alla “forza del destino”.
Un racconto velato di malinconica ironia è pregio di questo libretto concepito come mosaico di brevi capitoli a sbalzo, tasselli autosufficienti, che rivelano il “microcosmo” siciliano a tutto tondo per una illuminante messa a fuoco progressiva: con le fisionomie  di protagonisti dimenticati, come l’antropologo Antonino Uccello, fondatore del prezioso museo della cultura e civiltà contadina, a Palazzolo Acreide; con la vicenda letteraria del solitario e misconosciuto scrittore Giuseppe Rovella, tradizionalista cultore di una “sicilianità indoeuropea”; con il profilo del comunista  Renato Guttuso, “emigrato a Roma” , uomo famoso, artista e di potere, e pur sempre dominato da una siciliana indole malinconica; con lo stile, siracusano e romano, di Francesco Trombadori, pittore dai colori gentili della pietra bianca arenaria di Ortigia, Noto e Modica depositata sugli scenari capitolini; e così via enumerando uomini d’arte e spettacolo di successo, fino al ritratto vivido e allegro di Pippo Baudo, tanto legato al paese d’origine, ai  paesaggi del catanese, ai profumi e ai saporiti ingredienti della “caponata di Militello”.
Uomo della tradizione cattolica, democratica e popolare siciliana, attivo sindacalista cislino, Salvo Guglielmino non dimentica di enumerare quanto grande sia stato il sacrificio dei lavoratori e dei democratici per aprire vie di rinnovamento nella vita dell’ isola: dal suo mosaico si distilla il tragico 1968 dei braccianti di Avola uccisi dalla polizia durante una disperata lotta salariale contro gli agrari.
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Ci sono poi le figure ben delineate di vittime illustri della criminalità mafiosa, come Giuseppe Fava, Pio La Torre e Piersanti Mattarella, sullo sfondo del misterioso intreccio di poteri, mafiosi o meno, che portarono fin dal 1947 alla strage di Portella della Ginestra.
Speranza riformista, disinganno e disillusione si alternano nella memoria del profilo civile di alcuni personaggi chiave nei tumultuosi cambiamenti nella vita politica e sociale italiana degli anni ’90: dal battagliero Sergio D’Antoni, nativo di Caltanissetta, protagonista degli accordi di concertazione, che salvarono l’Italia dalla bancarotta e dall’inflazione, all’epoca ideatore  inascoltato di un sindacato unitario che “si fa governo”; e ancora emerge il ritratto sacrificale di Rosario Livatino, il “giudice ragazzino” ucciso dalla mafia, nativo di Canicattì, primo magistrato ad essere beatificato dalla Chiesa.  
Una Sicilia dal paesaggio affascinante, incrocio di antiche civiltà marinare e mondo arcaico dell’ entroterra (dalla necropoli Pantalica ai “santoni” di Akrai) fa da scenario all’imperversare di episodi di malgoverno locali e nazionali, con l’alternanza di progetti faraonici incompiuti,  dissesti stradali ed altre imprese lasciate cadere nel degrado; a questo stato di cose, si oppongono altrettante spinte vitali del genio produttivo siciliano quando affronta mille difficoltà per aprire occasioni di sviluppo.
E’ la “metafora” di una questione meridionale che coinvolge problemi sempre aperti: dal “sogno di Enrico Mattei” con la vicenda malgestita del polo petrolchimico di Siracusa, in preda all’inquinamento, e pure asse di collegamento tra Europa e Medio Oriente ancora tutto da sperimentare; alla “speranza di Vittoria”, paese del ragusano dove l’agricoltura fiorisce e la disoccupazione è parola sconosciuta, un tempo provincia senza mafia ed oggi infestata dai signori del “pizzo” e dai capi clan; e ancora vale notare la “guerra del vino” che dalla Valle del Belice fino a Pachino, ha visto mutare il volto dei vecchi latifondi agrari  in centri fiorenti di produzione e integrazione multinazionale e però anche con forme nuove di “colonizzazione” dell’industria vinicola del Nord che scalza e mette in difficoltà i piccoli coltivatori.
In una simile altalena di vecchio e nuovo, di aperture ricorrenti alla modernità mortificate da inattesi contrasti, ansie rinnovatrici e mutamenti imposti, il “microcosmo” dipinto da Salvo Guglielmino procede nell’ inquadratura di costumi, abitudini, eredità arcaiche, tradizioni pagane e di un cattolicesimo che abbraccia tanta parte del temperamento stesso dei siciliani, messo a fuoco come popolo di emigranti perfino in patria, “sempre inquieti, insoddisfatti, pessimisti”, un carattere che Tomasi di Lampedusa associava al paesaggio malinconico e selvaggio dell’isola. Morale? “Devi imparare a convivere con ciò che non puoi superare”, osserva Guglielmino, citando Bruce Springsteen. E aggiunge: “è stato sempre quello che, in fondo, mi hanno insegnato mio padre e mia madre”.
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marcopuntozip · 4 years ago
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RIVOLUZIONE DEL PROLETARIATO, ce la spiega Vladimir Uljanov Lenin – Te lo spiego facile – Canale di Vɘnti
«Ciao Vladimir!»
«Ciao Sofia e ciao a tutti!»
«Ormai siamo giunti all’ennesimo episodio di questa rubrica “Te lo spiego facile”, in cui cerchiamo di spiegare ai giovani (tipo me!) tutte quelle cose che ci permetterebbero di sembrare informati e possessori di un livello di cultura molto elevato anche se la nostra informazione proviene al 90% dai Ted Talk e dai canali di Infotainment.»
«Mi sembra una buona idea.»
«Tu Vladimir sei un rivoluzionario…»
«Più un politico e un filosofo che un rivoluzionario, principalmente mi occupo della diffusione e della messa in pratica delle idee marxiste»
«Ecco, bene, prima figura di merda fatta! Tu sei un filosofo politico, tra le altre cose. Hai pubblicato un libro molto bello (l’ho consigliato a un sacco di mie amiche) nel 1917, dal titolo “Stato e rivoluzione. La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione” in cui parli del concetto di “rivoluzione”. Visto che il concetto di rivoluzione è mega-fico, ci vuoi spiegare che cos’è brevemente e perché è così importante per l’attualità?»
«Certo. Allora, la rivoluzione è la presa di possesso di tutti i mezzi di produzione a nome della società.»
«E fin qui probabilmente ci sarei potuta arrivare anche io! LOL!»
«Ahahah! ROTFL! Storicamente i mezzi di produzione sono stati lo strumento attraverso il quale la classe borghese dominante è riuscita a costruire la società capitalista e a sottomettere e a sfruttare la classe proletaria dominata, costituendo così l’essenza dello Stato imperialista. Questo perché nel processo storico materialista scoperto da Karl Marx (troppo mio padre), chi ottiene il monopolio economico con il depauperamento di una classe sociale ottiene anche il monopolio politico»
«Ok, quindi occorre che questa classe proletaria prenda le redini dello Stato per cessare la sua situazione concreta di soggezione; un po’ come quando facevi attivo in classe durante l’ora di storia per riprenderti un attimo dalle verifiche dei prof.»
«Mmh, non proprio. Ottenere il controllo dei mezzi di produzione non vuol dire ottenere il controllo dello Stato. Esso è già per sua architettura strumento borghese dell’oppressione; l’obbiettivo del Proletariat (per usare il linguaggio tecnico marxista) è l’eliminazione dell’apparato statale. Vedi Sofia, il problema dello Stato è che esso è il risultato della lotta sociale, non il risultante. Ogniqualvolta nel corso della storia si è data una contrapposizione politica tra due classi sociali (come, per esempio, i pottini e quelli con la kefiah al collo nei primi anni del duemila), si è necessitato lo Stato come controllo di questo conflitto, della parte reprimente nei confronti della parte repressa. Il vero obbiettivo del proletariato è l’eliminazione di questo controllo, attraverso la cancellazione della lotta di classe imperialista, a sua volta attraverso l’eliminazione dell’altra classe esistente, la Bourgeoisie.»
«Volo. È qui che entra in gioco la rivoluzione, giusto?»
«Esatto, e qui veniamo al nocciolo della questione. Per fare ciò la classe proletaria ha bisogno di rivoltarsi contro questa oppressione imperialista, per ottenere i mezzi di produzione. Attraverso questo processo questi vengono poi collettivizzati e resi disponibili all’intera popolazione contadina e proletaria. Per fare ciò sono necessari ovviamente gli espropri forzati, la sottrazione di una qualsiasi forma di proprietà privata e la coercizione virulenta degli oppositori.»
 «Se non sbaglio questo è ciò che Marx ed Engels definiscono come la “Dittatura del proletariato”.»
«Esattamente, la Diktatur des Proletariats. È il processo fisiologico materialista di transizione dallo Stato borghese al Socialismo, in cui i borghesi vengono depredati delle loro proprietà, deturpati, soggiogati, torturati trucidamente, stuprati e violentati, ed infine uccisi. La classe proletaria si deve ergere a dittatore con atteggiamenti despoti e tirannici verso la borghesia, che deve essere proprio cancellata dalla faccia della terra. In questa fase la violenza è totalitaria e totalizzante.»
«Adoro, troppo io e le mie amiche quando facciamo ape sui Navigli: borghesi uccisi e dittatura instaurata. Morta! Mi piace come messaggio da mandare ai ventenni! Senti ho un’ultima domanda da farti: vuoi dire qualcosa a Kautsky?»
 «Si: che se ne vada a fare in culo, quel mongoloide.»
«Ok, grazie mille Vladimir! È stato un piacere averti in questa puntata!»
«Grazie mille a voi di Vɘnti per avermi ospitato!»
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carmenvicinanza · 2 years ago
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Gabriella Degli Esposti, eroina della Resistenza
https://www.unadonnalgiorno.it/gabriella-degli-esposti-eroina-della-resistenza/
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Gabriella Degli Esposti, nome di battaglia Balella,  è stata una partigiana eroina della Resistenza antifascista, insignita con la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
Nata a Calcara di Crespellano, in provincia di Bologna il 1° agosto 1912, in una famiglia contadina di idee socialiste. Nel 1931 si trasferì a Castelfranco Emilia dove viveva col marito Bruno Reverberi, cascinaio comunista tra i primi organizzatori del movimento partigiano locale. La loro casa, dopo l’8 settembre 1943, divenne la base della Quarta Zona della Resistenza.Gabriella Degli Esposti ha partecipato ad azioni di sabotaggio e organizzato uno dei primi Gruppi di Difesa della Donna con cui aveva capeggiato le proteste del 13 e del 29 luglio 1944, quando, in centinaia scesero in piazza a Castelfranco Emilia per protestare contro la scarsità di alimenti e manifestare contro la guerra.Il 13 dicembre dello stesso anno, durante un rastrellamento fascista, volto a contrastare l’irrobustirsi delle organizzazioni della Resistenza nella zona, venne catturata in casa, picchiata e minacciata di morte davanti alle due figlie, nonostante fosse incinta, perché si rifiutava di dire dove fosse suo marito e trasferita a Castelfranco Emilia dove, insieme ad altri prigionieri, venne sottoposta a stringenti interrogatori e torture.Prima di essere uccisa, il 17 dicembre 1944, era stata seviziata orrendamente. Il suo cadavere fu ritrovato privo degli occhi, con il ventre squarciato e i seni tagliati.Il suo supplizio indusse molte donne della zona a raggiungere i partigiani, fu così che nacque il distaccamento femminile “Gabriella Degli Esposti”, forse l’unica formazione partigiana formata esclusivamente da donne.
La motivazione della Medaglia d’oro postuma che le venne assegnata dice: “Due tenere figliolette, l’attesa di una terza, non le impedirono di dedicarsi con tutto lo slancio della sua bella anima alla guerra di liberazione. In quindici mesi di lotta senza quartiere si dimostrava instancabile ed audacissima combattente, facendo della sua casa una base avanzata delle formazioni partigiane, eseguendo personalmente numerosi atti di sabotaggio e contribuendo alacremente alla diffusione della stampa clandestina. Accortasi di un rastrellamento, riusciva ad allontanare gli sgherri dalla propria casa per breve tempo e, incurante della propria salvezza, metteva al sicuro le figliole ed occultava armi e documenti compromettenti. Catturata, fu sottoposta alle torture più atroci per indurla a parlare, le furono strappati i seni e cavati gli occhi, ma ella resistette imperterrita allo strazio atroce senza dir motto. Dopo dura prigionia, con le carni straziate, ma non piegata nello spirito fiero, dopo aver assistito all’esecuzione di dieci suoi compagni, affrontava il plotone di esecuzione con il sorriso sulle labbra e cadeva invocando un’ultima volta l’Italia adorata. Leggendaria figura di eroina e di martire.”
Il 22 aprile 2006, sul greto del Panaro, in località Ca’nova di San Cesario – dove furono ritrovati i corpi di Gabriella Degli Esposti e dei suoi compagni di lotta e di martirio – è stato inaugurato un monumento, realizzato dagli e dalle studenti dell’Istituto “Pacinotti” di San Cesario sul Panaro.
Nel 2016, la figlia Savina Reverberi Catellani ha pubblicato il libro Gabriella Degli Esposti, mia madre – storia di una famiglia nella tragedia della guerra, affinché il grande coraggio di questa donna che ha subito atroci torture ed è stata trucidata a causa dei suoi ideali e per liberare il nostro paese dal nazifascismo, non venga mai dimenticato.
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ultimavoce · 6 years ago
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Bernardo Bertolucci e la sua lezione di vita, poesia e anticonformismo
Chi era davvero #Bernardo Bertolucci e perché il suo #cinema non morirà mai?
“Signori, magistrati, moralizzatori: vorrei sapere in quale forno crematorio sarà bruciato il negativo di Ultimo tango a Parigi”.
Con queste parole affidate a una lettera aperta, il regista Bernardo Bertolucci commentava la decisione della Corte di Cassazione di distruggere tutte le copie di quello che, da quel momento diventa; “il film più censurato della storia”.
Era il 1976 e dopo l’epopea…
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paoloxl · 6 years ago
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Nella notte tra l’otto e il nove maggio 1978, il corpo di Peppino Impastato, posto sulla linea ferroviaria Palermo – Trapani, è dilaniato da una carica di tritolo. Il suo funerale, partecipato da centinaia di giovani provenienti da tutta la Sicilia, viene aperto da uno striscione con la scritta “Con le idee e il coraggio di Peppino, noi continuiamo”.
E proprio dalle idee che lo spinsero a schierarsi apertamente contro la “borghesia mafiosa” della provincia palermitana è bene cominciare, per comprendere a pieno il profilo di un compagno per lungo tempo dimenticato e attualmente riciclato in uno dei tanti santini dell’antimafia da salotto.
Giuseppe Impastato nasce a Cinisi il 5 gennaio 1948 da Felicia Bartolotta e Luigi Impastato, quest’ultimo ben inserito nel contesto mafioso della provincia di Palermo (era stato inviato al confino durante il periodo fascista, mentre una delle sorelle aveva sposato il capomafia Cesare Manzella, ucciso con una giulietta al tritolo nel 1963). Ancora ragazzo, Peppino rompe con il padre, che lo caccia via di casa, e comincia a dedicarsi all’attività politica: nel 1965 fonda il giornale “L’Idea socialista” e aderisce al Psiup. Dal 1968 in poi partecipa, con ruolo dirigente, alle attività dei gruppi di Nuova Sinistra. Conduce le lotte dei contadini espropriati per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Palermo, in territorio di Cinisi, degli edili e dei disoccupati. Nel 1975 costituisce il gruppo “Musica e cultura”, che svolge attività culturali (cineforum, musica, teatro, dibattiti ecc.) e al cui interno trovano particolare spazio il “Collettivo Femminista” e il “Collettivo Antinucleare”
Lui stesso descrive questa intensa fase con le seguenti parole :“Arrivai alla politica nel lontano novembre del ’65, su basi puramente emozionali: a partire cioè da una mia esigenza di reagire ad una condizione familiare ormai divenuta insostenibile. Mio padre, capo del piccolo clan e membro di un clan più vasto, con connotati ideologici tipici di una civiltà tardo-contadina e preindustriale, aveva concentrato tutti i suoi sforzi, sin dalla mia nascita, nel tentativo di impormi le sue scelte e il suo codice comportamentale. E’ riuscito soltanto a tagliarmi ogni canale di comunicazione affettiva e compromettere definitivamente ogni possibilità di espansione lineare della mia soggettività”.
Nell’estate del 1973 aderisce a Lotta Continua e conosce Mauro Rostagno, di cui apprezza in particolar modo le posizioni libertarie. Nel 1976 fonda Radio Aut, emittente privata e autofinanziata che indirizza i suoi sforzi e la sua scelta nel campo della controinformazione e soprattutto in quello della satira nei confronti della mafia e degli esponenti della politica locale. Il programma più ascoltato è “Onda pazza”, trasmissione condotta da Peppino stesso, durante la quale denuncia  quotidianamente i delitti e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini, e in primo luogo del capomafia Gaetano Badalamenti, che avevano un ruolo primario nei traffici internazionali di droga, attraverso il controllo dell’aeroporto. Nel 1978 si candida nella lista di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali, e viene eletto nel Consiglio comunale di Cinisi appena pochi giorni dopo essere stato assassinato.
Fin da subito, stampa, forze dell’ordine e magistratura parlano di atto terroristico in cui l’attentatore sarebbe rimasto vittima e, dopo la scoperta di una lettera scritta molti mesi prima, di un suicidio “eclatante”. Il 9 maggio del 1979 il Centro siciliano di documentazione (nato nel 1977 e che nel 1980 si sarebbe intitolato a Giuseppe Impastato) organizza, con Democrazia Proletaria, la prima manifestazione nazionale contro la mafia della storia d’Italia, a cui parteciparono 2000 persone provenienti da tutto il paese. Dopo diverse archiviazioni, depistaggi e ostruzioni da parte della polizia, il caso dell’omicidio viene riaperto nel 1996 grazie alle forza e alla determinazione dei compagni e della madre di Peppino e del Centro di documentazione Impastato; il 5 marzo 2001 la Corte d’Assise ha riconosciuto come colpevoli dell’omicidio Gaetano Badalamenti nel ruolo di mandante e Vito Palazzolo in quello di esecutore.
Della figura di Peppino a noi interessa però sottolineare l’importanza della sua antimafia sociale, contro un sistema di relazioni in cui sono strettamente intrecciate mafie, politica, amministrazione, finanza. Come ha scritto Giovanni Russo Spena, “L’antimafia sociale contro la borghesia mafiosa, contro processi di accumulazione mafiosa che sono veri e propri percorsi di valorizzazione del capitale globale (…) Noi ci impegniamo a ricostruire, pur dentro alle difficoltà del presente, partecipazione, protagonismo, autorganizzazione, intorno ad una antimafia, come quella che Peppino ha incarnato, non ipocrita, non di facciata, ma viva, vera, sociale; lottare contro le mafie è, per tanti giovani e tante ragazze, anche lotta contro la precarietà, per il salario sociale, il reddito di cittadinanza. Per questo Peppino è parte fondativa del nostro vissuto politico. Per questo rifiutiamo interpretazioni edulcorate e centriste: Peppino fu uomo del ’68, non va dimenticato. Fu militante anticapitalista che organizzava conflitti sociali, dagli studenti ai braccianti, ai contadini poveri. E fu precursore, anche come organizzatore culturale, di un’intensa e moderna criticità come rovesciamento e senso comune di massa. Radio Aut fu la struttura comunicativa più moderna del Mezzogiorno, negli anni Settanta, esempio straordinario di inchiesta e controinformazione. La metafora, il sarcasmo, la desacralizzazione dei capi mafiosi diventarono, con Peppino, strumento di lotta politica”.
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fondazioneterradotranto · 6 years ago
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La poesia popolare del Salento (parte II)
di Cristina Manzo
  Anche quando i Longobardi si stanziarono in Italia e vi furono le alterne vicende della lotta tra Bizantini e Longobardi, la penisola salentina fu una delle pochissime terre che restarono legate a Bisanzio, quindi anche allora i legami marini furono più forti di quelli terrestri. E così fino al secolo XI, in cui finalmente la potenza bizantina venne debellata da quella Normanna, una potenza peraltro venuta dal mare.
La penisola Salentina, che aveva mantenuto una continuità di legami prima con la Grecia e poi con Bisanzio, era stata quindi permeata da quella civiltà, lingua, costumi, cultura e continuerà, anche nelle epoche seguenti, a manifestare quella civiltà greca e bizantina, sia nel periodo normanno che in quello svevo e in quello angioino, fino all’aragonese. Dunque il mare per la penisola salentina è un elemento di unione, non di separazione. Da questa realtà sono derivati non solo la storia della penisola e la sua civiltà, ma i caratteri etnici, etnografici linguistici, folklorici.
È questa la causa dello stupore che suscita il Salento come regione pugliese così diversa dalle altre, sia pur vicinissime, che la sua unità e indipendenza dalle sorti e dalla civiltà del resto della Puglia ne fanno una regione a sé.
L’importanza dunque del mare nella vita della penisola salentina è capitale ed è la chiave di volta per la comprensione della civiltà, della realtà storica di essa.
Tutto il folklore salentino testimonia di tale realtà ed è illuminato da tale prospettiva. Dalla lingua, permeata, oltre che nelle forme, nell’atteggiarsi e nel flettersi, di classicismo greco e romano; alla fantasia e all’immaginativa fortemente estetizzanti; alle tradizioni e ai costumi, nei quali si rivela una continuità dalle antichissime epoche della Magna Grecia; alle leggende, in molta parte derivate dalla tradizione classica greca e romana e riecheggianti le varie vicende della regione, sempre legate all’Oriente; alle tradizioni religiose e profane; alle abitudini di vita dei pescatori e contadini; al loro modo di vivere e di poetare; alle manifestazioni d’arte popolare, in cui una raffinatezza di gusto e di genialità fa pensare alla vena artistica greca immessa d’oltremare in questa regione.
immagine tratta da http://www.expopuglia.it/turismo/visita-la-puglia/brindisi-e-provincia/lecce-e-provincia/gallipoli-e-i-gabbiani-lecce-208
  La poesia popolare del Salento porta i riflessi del mare in tutte le sue forme e spesso tale riflesso segna i canti salentini di note che li rendono indipendenti dai canti delle altre regioni, tanto da poter fare avanzare l’ipotesi dell’origine locale dei canti stessi. Dalle ninne nanne, versetti: “Nare nare nare / A Caddipuli è bellu stare / Te ‘n facci te li fanésce iti l’onde te lu mare” o Scongiuri; proverbi: “Scerocche kiàre e tramendàne scure / Mittete a mare e nun avè pagùre” o filastrocche: “Lu rùsciu te lu mare è tantu forte”, ai canti d’amore, in cui i termini di paragone, le similitudini per la bellezza della donna amata sono attinti all’esperienza di vita.
Così in alcuni canti raccolti in luoghi marini si trovano più numerosi accenni al mare, termini tecnici marinari, immagini e visioni determinate dall’ambiente: “La ripa te lu mare”, “La nave”, “ L’àncuara”, “Lu pìscatore”5 . (trad. nelle note).
La poesia del Salento non è stata studiata in modo organico nelle sue molteplici espressioni ma, non sono mancate raccolte, alcune più ampie, come quella dell’Imbriani e Casetti, altre più ristrette come quella del Gigli e di altri. In tempi recenti un impulso più vivo e concreto alla raccolta e allo studio sistematico della poesia popolare salentina è stato dato dall’Istituto per le Tradizioni Popolari di Roma, sotto la guida illuminata e dinamica dell’illustre Prof. Paolo Toschi, che ha fatto svolgere ai suoi allievi salentini tesi di laurea e saggi su vari argomenti di poesia e di tradizioni popolari di questa regione.
Attingendo anche da questo prezioso lavoro svolto in precedenza, quindi, è poi stato fatto un tentativo molto faticoso e lungo di raccogliere poesie, filastrocche e canti lirici e popolari riguardo ogni tipo di evento (riti religiosi, funerali, lu cunsulu, credenze pagane, la storia dei tarantati, feste dei santi patroni, Natale, la passione di Cristo, leggende e tragedie, promesse e matrimoni), in un’area non molto vasta attorno a Lecce e cioè: Surbo, Castro e Castrignano del Capo, ponendo attenzione alle significative o, a volte impercettibili, varianti del dialetto e del conseguente significato attribuito alle parole6.
Giovani marittimesi negli anni ’70
  Tutte le Strofe o gli Stornelli, anticamente e con frequenza, venivano usati nelle famiglie per comunicare con i bambini, (che li amavano particolarmente quando erano in rima), altresì, venivano narrati o cantati nei campi, per recare sollievo durante le lunghe ore di lavoro; o nascevano come proverbi e “spramenti” (avvertimenti esperienziali, nel senso che solo dopo che se ne è fatta esperienza se ne capisce il significato, a qualsiasi soggetto lo “spramento” sia connesso) riferiti a qualche mestiere faticoso come, per esempio, un canto raccolto a Surbo, che a quanto pare è collegato al lavoro del trappeto (termine salentino che indica il frantoio, dove avviene la spremitura delle olive per produrre l’olio): “Ci vuèi sacci le pene de lu ‘nfièrnu fane ‘nu mese e mìenzu lu trappìtu, la prima notte ‘nde pièrdi lu sennu, l’àutra notte lu sennu e l’appetitu”7. (Trad. nelle note).
A volte nascevano stornelli improvvisati per le strade o nelle piazze; in qualche ritrovo comune come una sala ricreativa, si creava l’occasione di una gara poetica in cui tutti amavano cimentarsi, dai più piccini ai più grandi; inoltre rime e strofe si prestavano molto bene quando si voleva trattare un argomento usando la satira o nelle dichiarazioni amorose. Gli stornelli e le filastrocche popolari, in tutto il Salento erano o narrati o canticchiati, con tonalità, musica e melodia quasi sempre improvvisati, le strofe o il numero dei righi o dei versetti di ogni componimento erano giustificati dall’occasione e dal contesto che li richiedeva.
(continua)
Note
4 Poesia religiosa narrativa, (fa parte dei canti raccolti in Castro), canto recitato da Luigi Schifano detto Lu Tarantinu, nato in Castro, nell’anno 1876, non legge e non scrive. Trad.: La presa che fecero i turchi una di quelle robe caricò. Una caricò più di tutti, portò via un grande tesoro. Capitò in mano a una donna turca che era arrivata ai dodici mesi e non partoriva. Lì si trovava una schiava cristiana, “Questa statua al paese devi rimandare”. La donna che sentiva doglie crudeli dentro un grande vascello avrebbe voluto rimandarla, ma prende una barchetta sconsolata e la butta un mare nell’aria imbrunita. La sera si partì dalla Turchia e in una notte fece tanta strada. Le genti otrantine avvistarono una luce, i marinai si buttano nel mare ma la Madonna indietreggiò. Cambiando capitolo, scese il Bonsignore e la Madonna a terra si tirò. Poi scrisse al Santo Papa per dire che si era trovata una gentile rosa. Il Papa dispensò il Giubileo per perdonare e salvare da ogni peccato, p.389, in La poesia popolare del Salento di I. M. Malecore, 1967.
5 Il mare nel folklore del Salento, di I. M. Malecore, Provincia di Lecce – Mediateca – Progetto EDIESSE (Emeroteca Digitale Salentina)         a cura di IMAGO – Lecce. Traduzione, secondo l’ordine di scrittura dei versetti in vernacolo: “Nuotare, nuotare, nuotare, a Gallipoli è bello stare, ti affacci alla finestra e vedi le onde del mare”. “ Con gli scirocchi chiari e le tramontane scure, mettiti in mare e non avere paure”. “ Il rumore del mare è tanto forte”. “ La riva del mare, la nave, l’ancora, il pescatore”. http://www.culturaservizi.it/vrd/files/ZG1959_mare_folklore_Salento.pdf
6 Irene Maria Malecore, La poesia popolare nel Salento, Leo S. Olschki Editore MCMLXVII, Firenze, 1967. Biblioteca di «Larès», Vol. XXIV.
7 Canto di lavoro,( fa parte dei canti popolari raccolti in Surbo), canto recitato da Caterina Conte detta la Mangorfa, nata in Surbo, nell’anno 1868, contadina, legge e non scrive. Trad.: Se vuoi conoscere le pene dell’inferno fai un mese e mezzo al trappeto, la prima notte ci perdi il sonno, l’altra notte il sonno e l’appetito, p.342 in La poesia popolare nel Salento, di I.M. Malecore, 1967.
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